Nella galleria d’arte contemporanea “Quadrifoglio” di Siracusa, la mostra “Reminiscences of a tribe”, di Giuseppe Piccione, si pone come scandaglio della realtà multiforme, alla ricerca di un rifugio nelle viscere della terra. Una carrellata di opere figurative, in cui i colori, arzigogolo di sentimenti, giocano con una singolare geometria di fogge e che, aggrappati alla vita, avvertono sul senso imminente di morte.
Sono maschere custodi del dolore che reclamano salvezza a quel Dio che pretende incondizionata fede, dinanzi a un destino bieco e barbaro. Un grido accorato, che spesso gli uomini mettono a tacere, e di cui Giuseppe Piccione si fa portavoce, consapevole che nel proprio travaglio si specchia il tormento del mondo. Sono voci di periferia, di margine, che, dai bassifondi dell’anima, invocano aiuto, anelano la redenzione, dopo una vita condotta sul filo dell’espiazione. Non a caso, alla sua carriera artistica – condensabile nell’esposizione in ventinove mostre personali e cinquanta mostre collettive sia in Italia che all’estero – Piccione affianca il ruolo di terapeuta per individui affetti da disturbi psichiatrici e autismo. Nei quadri, la riproposizione della medesima faccia, con attributi plastici, comunque, differenti, spicca la ricerca di tinte irreali che, protese verso una religiosità tradizionale, restituiscono al visitatore il concetto di spiritualità. È questo il compito che Giuseppe Piccione si prefigge inconsciamente, consapevole dello smarrimento del misticismo nella cultura di massa.
«Tra i lineamenti primitivi di quei visi, realizzati su tela e riconducibili a una cultura animistica – dice l’artista – sono racchiuse le mie paure, le mie delusioni, le mie emozioni. L’amore per quelle tinte, direi quasi abbaglianti, è nato nel sud Africa, dove ho trascorso la mia infanzia. Mi sono avvalso di tecniche miste – acrilico, smalto e collage - come è nel mio stile, in omaggio, probabilmente, a quella creatività trasmessami da mio padre, costruttore edile, e da mia madre, abile sarta e cuoca. Le stelle, disseminate a mo’ di cornice e che, spesso, osano incontrarsi e incastrarsi con le fattezze dei volti, sono ritagli di matrici di assegni, di fumetti, di fotografie, appartenuti alla mia famiglia e, che, dunque, costituiscono il mio bagaglio memoriale e affettivo. Ho scelto la forma di stelle perché tali astri, oltre a simboleggiare la luminosità, sono portatori di un mistero insondabile».
La mostra, inaugurata lo scorso 13 ottobre e che chiuderà i battenti giorno 28, sta registrando un notevole afflusso di pubblico. Sulle tele, tra i segni di una pittura pop, rullano i tamburi, si spengono le luci, la vita fa un giro di valzer con il sacro. Venghino, signori, venghino. Lasciate fuori ansie e paure, salite pure sulla giostra dei colori, eccovi l’ebbrezza dell’ignoto, si ritorna alle origini.
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