La maga, principessa della Colchide, discendente del Dio Sole, Medea è tornata al Teatro Greco di Siracusa.
La maga, principessa della Colchide, discendente del Dio Sole, Medea è tornata al Teatro Greco di Siracusa, per la regia di Federico Tiezzi e la traduzione di Massimo Fusillo. Colei che un tempo sacrificò tutto per la gloria di Giasone (Alessandro Averone), diventa oggi una donna del Novecento, all'interno di un dramma borghese, dove assistiamo ad una separazione e alle conseguenze tragiche che questa comporta.
Dopo averlo aiutato a conquistare il Vello d'oro, voltando le spalle alla sua famiglia, Medea lo segue fino a Corinto, dove Giasone sceglie di legarsi e allearsi con Creonte, sposandone la figlia. Si apre così la scena su Laura Marinoni (nei panni di Medea, vestita di piume blu, alla maniera dei barbari), tornata ancora una volta sul palcoscenico aretuseo, in un ruolo dalla potenza innegabile, forse non espressa nel modo più incisivo.
Credits: foto di Franca Centaro
Il turbamento interiore della protagonista viene portato in scena, a metà strada tra pathos antico e flusso di coscienza moderno. Medea pensa e si strugge, a causa del tradimento subìto e dell’amara sorte che l’attende, unica via possibile per uscire dalla stretta in cui è stata confinata per volere dell’uomo, Giasone, al quale vanno tutte le colpe. La figura di questa donna è scomoda. Straniera in terra greca, intrusa in una casa che non accoglie né lei né i suoi figli. Una casa che la esilia, Lei che non può più tornare in Colchide, Lei che ha tradito il padre e ucciso il fratello. Lei che ha utilizzato l’arte magica e ogni stratagemma per favorire Giasone e il suo destino, ora è sola, abbandonata. Incapace di guardare negli occhi i suoi stessi figli, simbolo di un amore che non esiste più, sostituito da uno più giovane, di comodo, che porterà potere e ricchezza al bastardo che una volta era suo marito. Medea diventa il simbolo di quella che oggi definiremmo "sindrome di alienazione genitoriale”. Furono gli allievi di Freud a chiamarla, appunto, “sindrome di Medea”, per tentare di rendere razionale ciò che non può essere razionalizzato: l'omicidio dei figli.
Credits: foto di Aliffi
È in quel momento che il cuore in tumulto di Medea perde il controllo, al punto da scegliere la morte come risoluzione del tradimento subìto. Non una vendetta, ma una ricerca di giustizia, uno scontro fra cultura barbara e grecità, arti oscure e giustizia, la stessa a cui le chiedono di appellarsi le ancelle (portate in scena da un coro eccellente). Allo sgretolarsi della casa di Creonte, corrisponde l’avanzamento della follia di Medea. Il tutto in un crescendo, magistralmente espresso dalle musiche di Silvia Colasanti, con voci bianche, canti in aramaico, fino ad arrivare all’apice del pathos sulle note di “This bitter Earth” di Max Richter e Dinah Washington e ad alcuni frammenti tratti dai “Kindertotenlieder” di Malher, utilizzati nel momento in cui, fuori dalle scene, i figli di Medea e Giasone perderanno la vita per mano della loro stessa madre. Così come accadeva nell’antica Grecia, la Morte non compare mai in scena, ma aleggia come un’ombra, fino a tingere di rosso sangue il λογεῖον (parlatoio), che tra lamenti e pianti verrà spazzato, più volte, dal coro delle ancelle.
Moderno e antico si rincorrono nella messa in scena, lo vediamo nei dialoghi, nei costumi e nella scenografia, al punto che nella villa neoclassica, dove marmi bianchi e neri la fanno da padrone, entra in scena una gru fuori contesto (carro del Dio Sole, deus ex machina), che porterà Medea nella terra di Egeo.
Degne di nota le interpretazioni del pedagogo (Riccardo Livermore) e del nunzio donna (una bravissima Sandra Toffolatti). Le scene sono firmate da Marco Rossi, i costumi da Giovanna Buzzi. Nel cast anche: Debora Zuin, Roberto Latini, Alessandro Averone, Luigi Tabita, Francesca Ciocchetti e Simona Cartia. Con la partecipazione degli allievi dell'Accademia d'arte del dramma antico.
Credits: foto di Aliffi
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