In occasione della Giornata della Memoria, la redazione di Notabilis condivide parte della riflessione dell'Associazione STONEWALL Siracusa sulle vittime dell'OMOCAUSTO:
Da bambini ci viene insegnato che quello ebreo fu un popolo molto sfortunato, condannato, durante l’era nazista, allo sterminio per la pazzia di un solo uomo e a causa di un’aberrante ideologia. L’ideologia nazista, mirando alla purezza della razza, generò il più grande eccidio della storia: l’olocausto. Ad essere deportati, rinchiusi nei campi di concentramento e barbaramente uccisi furono milioni di persone: ebrei, Testimoni di Geova, prostitute, zingari, handicappati ed omosessuali; ovvero tutti coloro che venivano considerati “elementi inutili”, “inadatti alla vita”, “diversi” o che semplicemente minacciavano la “purezza “ della “razza ariana”.
Quello che accadde a migliaia di omosessuali, però, è stato messo nel “dimenticatoio”. É giusto e doveroso, quindi, richiamare alla memoria quello che è stato definito OMOCAUSTO. Nonostante l’esistenza del Paragrafo 175, che in Germania puniva con la detenzione i rapporti sessuali tra uomini, nella Berlino di inizio secolo fiorivano i primi movimenti omosessuali, nascevano i primi punti d’incontro, bar e locali gay [...].
I tedeschi erano fortemente provati dalla crisi e l’ideologia nazista trovò la strada spianata, quando nel 1933 Hitler salì al potere, la condizione di tutti gli omosessuali tedeschi cambiò radicalmente. Nel febbraio di quell’anno, infatti, il Ministro dell’Interno Gӧring emanò dei provvedimenti che prevedevano l’abolizione del segreto epistolare, interdivano la stampa omosessuale, ordinavano la chiusura dei locali notturni e rendevano illegali tutte le associazioni omosessuali. Due anni dopo, la pena prevista dal Paragrafo 175 aumentò da 5 a 10 anni di reclusione [...]. Le notizie dei primi omosessuali deportati risalgono proprio al 1933: questi venivano marchiati con un triangolo rosa che portavano al petto come segno ridicolizzante di riconoscimento, maltrattati e isolati non solo dai nazisti ma spesso anche da tutti gli altri deportati, timorosi di essere etichettati loro stessi come omosessuali. Venivano assegnati loro i lavori più duri, con la convinzione che questo li avrebbe indotti a ricredersi sul loro orientamento.
Ecco la descrizione a riguardo fatta da Rudolf Hoess, per due anni comandante del campo di Auschwitze poi di quello di Sachsenhausen: «A Sachsenhausen fin dal principio gli omosessuali vennero posti in un blocco isolato, e egualmente vennero isolati dagli altri prigionieri durante il lavoro. Erano adibiti ad una cava di argilla di una grande fabbrica di mattonelle; era un lavoro duro, e ciascuno doveva assolvere una determinata norma. (…) Estate o inverno, erano costretti a lavorare con qualunque tempo. L’effetto di quel lavoro, che avrebbe dovuto servire a riportarli alla “normalità”, era differente a seconda delle diverse categorie di omosessuali. (…) Quelli che intendevano realmente guarire (…) sopportavano anche i lavori più duri, gli altri decadevano fisicamente giorno per giorno».
Il 60% dei detenuti omosessuali non riusciva a superare il primo anno di internamento, sia per lo stato cui erano costretti a vivere, sia perché molti divennero cavie, sottoposti a folli esperimenti clinici. Da ricordare è il caso del dottor Carl Vaernet, medico delle SS che, cercando di guarire i deviati impiantò nel loro corpo una ghiandola ad alta concentrazione di testosterone. Inutile dire che l’esperimento non ebbe nessun esito positivo, ma, al contrario, causò la morte dell’80% delle vittime. Altra pratica largamente diffusa fu la castrazione. Vi si sottoponeva volontariamente chi era intenzionato a "guarire", riuscendo così a evitare il carcere e la deportazione nei campi di concentramento e di sterminio. [...] Non si conoscerà mai esattamente il numero delle vittime omosessuali [...].
Ben diverso invece fu il trattamento riservato alle donne lesbiche, la cui considerazione, vita e persecuzione cadde nel silenzio. Per renderci conto di quale stima godessero in quel periodo, riportiamo qui uno stralcio di comunicazione epistolare scritto dal Ministro della Giustizia del Reich nel 1942: «L’attività omosessuale fra donne non è così diffusa come tra gli uomini. (…) Una delle principali ragioni per punire atti sessuali tra uomini – vale a dire la distorsione della vita pubblica a causa dello sviluppo di legami di dipendenza personale – non ha ragione di essere per le donne, a causa del loro minor peso nella società e nel pubblico impiego. Infine, le donne che indulgono in relazioni sessuali innaturali non sono impedite del tutto come agenti procreativi diversamente dagli omosessuali uomini, anche perché l’esperienza mostra che in seguito le donne tornano spesso a relazioni normali». [...] Così come accadde per quelle gay anche tutte le riviste lesbiche vennero dichiarate immorali e tutti i locali e i caffè chiusero bottega. Molte donne furono costrette a trasferirsi in altre città o a impastire finti matrimoni. Quelle che non riuscirono a sfuggire ai controlli vennero rinchiuse in cliniche psichiatriche o internate nei campi di concentramento. Anche lì vennero praticamente ignorate, al punto chenon portarono il triangolo rosa, come accadeva agli uomini, ma furono assegnati loro i marchi di riconoscimento delle altre categorie. [...] Poco prima della liberazione molti degli archivi dei campi di concentramento furono distrutti quindi, difficile è fare un calcolo effettivo delle vittime. Nei documenti rinvenuti soltanto cinque lesbiche furonodeportate e registrate come tali.
Se per la Germania si trattava di una questione di purezza, nell’Italia fascista, la cui cultura era improntata al machismo e alla virilità, era impossibile che l’omosessualità fosse un fenomeno tanto comune; era necessario reprimere e isolare i casi evidenti. Figurarsi che non venne ritenuto nemmeno opportuno introdurre nel codice penale un articolo a riguardo perché “per fortuna ed orgoglio” l’omosessualità non era tanto diffusa. [...] I disagi cui furono sottoposti i prigionieri spesso li portarono alla perdita del senno e al ricovero nei manicomi. Le persone accusate di “comportamento contrario alle disposizione del regime sull’educazione dei giovani”, di “attentato alla morale e all’integrità della razza” e di “delitti contro la razza” e condannate al confino tra il 1936 e il 1939 sono state un centinaio. Per il Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza si poteva essere puniti anche in assenza di prove dopo un processo sommario. Molti vennero licenziati, ammoniti, pestati o subirono purghe all’olio di ricino.
Con la fine del secondo conflitto mondiale nulla cambiò. Gli omosessuali del Reich finirono di scontare, dopo anni nei campi di concentramento, la loro pena in carcere. A nessun omosessuale venne concesso un indennizzo per quello che aveva subìto. Il Paragrafo 175 verrà abrogato solo nel 1994. Anche negli altri paesi si continuò a punire gli omosessuali con la detenzione in carcere, la lobotomia o l’elettroshock; nell’Unione Sovietica furono condannati ai lavori forzati, sottoposti a ogni tipo diviolenza, stuprati e costretti a prostituirsi. [...] L’articolo 121 del codice penale russo, che condannava le pratiche omosessuali, verrà abrogato nel 1993. Gli omosessuali non ebbero e non hanno ancora nessun riconoscimento.
Quello che viene definito omocausto non viene nominato nei libri di storia, raramente dai giornali. Le stesse associazioni di ex deportati, ancora oggi, non accettano come loro pari gli ex deportati omosessuali. E così, come tutta la faccenda, anche quei pochi superstiti si sono chiusi nel silenzio, forse per dimenticare o forse perché dimenticare è impossibile.
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