“Misericordia” di Emma Dante, portato in scena al Teatro Massimo di Siracusa, è una parabola del dramma esistenziale i cui toni tragici sfumano con delicatezza nella favola. La scena minimalista – quattro sedie pieghevoli e vari giocattoli – viene inondata a tratti dalla spazzatura, simbolo di quell’ambiente degradato dove Arturo, il protagonista, figlio di una prostituta, Lucia, secca come un’acciuga, è nato. La madre, però, al settimo mese di gravidanza, è stata uccisa a botte dal pappone, un falegname, “almeno fammi sgravare” - gridava la poveretta al settimo mese di gravidanza - ma quello imperterrito calci e pugni pure sulla pancia. Arturo (Simone Zambelli) dinoccolato, con gravi ritardi psichici e motori, da altre tre puttane viene allevato: Anna, Nuzza e Bettina (Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi).
Arturo non parla, si picchia in testa, fa le giravolte, allarga le braccia e volteggia come se sul capo, al posto dei capelli vi fosse cresciuta una cresta. La forza degli attori è dirompente – gestualità portata all’estremo, corpi che simulano l’amplesso e quando la parlata si riduce a suoni non se ne afferra il nesso. Nonostante l’aspro paesaggio siciliano non sia neppure abbozzato – non vi è traccia dei dirupi che degradano verso il mare, né dei campi assolati coi covoni abbandonati – il dialetto palermitano ci conduce nella terra delle meraviglie e delle contraddizioni, signore e signori, la fragilità è la nostra cifra, che il Signore non ci abbandoni. Un’esistenza condotta ai margini in cui echeggia la violenza e la sopraffazione degli uomini, senza però che sul palco gli stessi facciano irruzione. Le donne, che inizialmente litigano tra loro, - nessuna pietà per Bettina che ruba prosciutto e sottilette dallo scomparto in alto a sinistra del frigorifero destinato alle altre – si compattano per restituire ad Arturo un po’ di comodità e decoro. E, così, la musica, che tanto piaceva alla madre – una radiolina aveva, ballava sempre come fosse in una balera - diventa colonna sonora della performance teatrale, del bene che può scaturire dal male.
Le note di “Ma che bel castello marcondirondirondello”, di “Pinocchio”, il suono di un carillon, carezzano i sensi, senza farci distrarre neanche un po’. Le donne, per il loro Arturo, hanno raccolto un gruzzolo di denaro, - Arturo così potrà disporre di un cassetto dove riporre la biancheria, di un termosifone per scaldarsi nelle notti in cui la tempesta fa tremare il mare. Da lontano si sente la banda – appena passa Arturo nostro, vai con lei, ti condurrà a un’altra vita, è la musica che comanda -. La banda per Arturo sarà la salvezza, da tempo ogni sera echi di musica lontana sente alla finestra. Anna, Nuzza e Bettina, che di giorno sulle sedie sferruzzano a maglia e che all’imbrunire offrono le loro carni cadenti a chi di lì passa, confezionano dunque una nuova vita per Arturo, amore nostro, almeno hai un futuro. E Arturo, che mai ha parlato, prima di congedarsi pronuncia “Mamma” lasciando anche il pubblico senza fiato.
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