«Sì, perché scrivere è un atto che non è mai fine a se stesso: pretende responsabilità e forza d’animo. Ci si trova da soli con le parole e con i propri dubbi, con il timore di non aver dato abbastanza, con la sensazione di dover combattere a corpo a corpo con una storia che non vuole essere domata e scegliere quali rami secchi tagliare e quali nuove fondamenta costruire. E invece, alla fine, comprendi che ogni romanzo è una strada piena di curve e di dossi, e che puoi scegliere se percorrerla a passo di danza o con un incedere insicuro, illuminato solo dalla luce dell’intuizione. Sai soltanto che davanti a te hai una stella polare: la storia che vuoi raccontare».
Nel ringraziare chi l’ha accompagnata nella stesura del suo romanzo, L’inverno dei Leoni (Editrice Nord, 2021), Stefania Auci volge lo sguardo indietro, verso ciò che ha significato per lei mettere su carta una storia come quella dei Florio. Una storia dal finale già scritto, viva nell’immaginario collettivo, prima ancora che negli archivi, e pertanto forse ancora più difficile da raccontare: tanti infatti gli uomini e le donne, i luoghi e le vicende che reclamavano nuova luce.
Come accadeva in un altro celebre romanzo della letteratura siciliana ‒ I Viceré di Federico De Roberto ‒ è la morte a dare avvio alla narrazione, o meglio, il frastuono che questa scatena quando a morire è qualcuno di importante. E nella Palermo del 1868, Vincenzo Florio lo è più di chiunque altro. Il protagonista del primo volume della saga, I leoni di Sicilia (Editrice Nord, 2019), artefice della straordinaria ascesa della famiglia, muore a neanche settant’anni, lasciando nelle mani del trentenne figlio Ignazio un’eredità immensa. I Florio, infatti, a dispetto delle modeste origini ‒ nel 1799, il padre e lo zio di Vincenzo, Paolo e Ignazio, erano giunti a Palermo da Bagnara Calabra e avevano aperto una putìa di spezie ‒ sono adesso tra i più ricchi commercianti d’Italia e sono riusciti a “portare” sangue nobile in famiglia, grazie al matrimonio di Ignazio con la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona, celebrato due anni addietro, nel 1866. Sotto il peso di questa eredità, che è innanzitutto un nome, si dipana la vita dei protagonisti, quella di Ignazio prima, e di suo figlio Ignazio dopo. Sì, perché essere un Florio implica non essere nient’altro: rinunciare all’amore vero, trascurare gli affetti, farsi scudo contro le invidie, non vacillare, capire di chi ci si può fidare, sognare in grande, pensare al futuro. Questo è quello che fanno (o che provano a fare) gli uomini della famiglia, in un arco di tempo che va dal 1868 al 1935, in un’Italia che muove i suoi primi passi dopo l’Unificazione, tra scandali, scioperi, fratture tra Nord e Sud, l’avvento del fascismo e lo scoppio della Grande Guerra.
Accanto a loro ci sono le donne, le protagoniste Giovanna e donna Franca, e tante altre ancora: figure vive, granitiche, depositarie di una rabbia antica, di una forza altera che ne scolpisce i profili e le accomuna tutte:
«Siamo tutti soli, donna Franca, uomini e donne. E non importano i soldi, i titoli o il rango sociale. Cerchiamo tutti qualcosa che non abbiamo, che ci manca. Ma a un uomo vengono date le armi per combattere le sue battaglie. Una femmina, invece, se le deve guadagnare quelle armi e, se le ottiene, le paga a caro prezzo».
Tra i rapporti di questi uomini e queste donne, Auci scava e contempla con feroce empatia, senza mai sacrificare la più impercettibile piega dell’animo umano. Così, se ogni capitolo è introdotto da una sintesi storica che consente di leggere le vicende personali alla luce di un disegno più ampio, l’introspezione e i dialoghi, a cui sono spesso affidati bilanci estremi e intime confidenze, trasformano le cronache familiari in un racconto vivo e bruciante.
«“Tu non lo hai mai capito cosa significa stare come sto io. Un’autra fimmina s’avissi abituato, c’avissi livato pinseri perché non è che si può campare accussì. Ma io no. Tu si’ ccà dintra”. E si batte il petto con le nocche. “E di ccà ’un ti nni puoi scappari”. La voce si affievolisce sino a diventare una nuvola di fiato nell’abitacolo gelido. Giovanna appoggia il mento sul petto e chiude gli occhi. È come se si fosse tolta un peso dal cuore, ma solo per sostituirlo con il fardello assai più gravoso della consapevolezza. Perché da adesso in poi quell’amore non ricambiato ‒ un sentimento che ferisce chi lo prova ed è privo di valore per chi lo riceve ‒ non potrà più nascondersi sotto un velo di serenità o rassegnazione. Sarà sempre lì, in mezzo a loro, in tutta la sua spietata concretezza».
L’amore, come già accadeva nel primo volume, è indagato in ogni sua forma, fuori e dentro del vincolo matrimoniale, tra genitori e figli, tra donne che provano a (r)esistere in un mondo che le confina al silenzio, tra uomini che annaspano sotto i ritratti impietosi dei padri.
Nel solco della tradizione del romanzo storico, a raccontare è una voce onnisciente, che guarda però ai fatti con una sensibilità tutta moderna; che adopera i verbi al presente, sfumando ogni distanza tra chi legge e chi è letto; che ricorre a metafore pregnanti e descrizioni minuziose, trasfigurando gioielli in amuleti, catturando riflessi sugli specchi, profumi e colori di un’epoca estinta. Una voce che sì, incede a passo di danza e getta luce là dove ce n’era bisogno. Per questo, con L’inverno dei Leoni, Stefania Auci non ha solo domato e raccontato una storia: ha creato un vincolo saldo e inviolabile tra ciò che siamo e ciò che eravamo.
©riproduzione riservata