Con il mese di giugno ritornano alla memoria i ricordi di un tempo ormai lontano, quando le bionde messi ondeggiavano al soffio della leggera brezza; era, infatti, il mese in cui la campagna iblea ritornava a ripopolarsi per la mietitura del grano e la successiva trebbiatura. Le colline iblee diventavano dorate e le spighe, in attesa di essere mietute, ondeggiavano e si piegavano al leggero venticello degli alisei, che spirava dolcemente e ne increspava gli steli già alti e pronti ad essere falciati.
Perciò, alla fine di maggio, i proprietari, per la imminente mietitura del frumento, cominciavano a mercanteggiare co ligaturi (colui che legava le fascine di spighe) per stabilire i patti e, di conseguenza, ingaggiare i gruppi di mietitori (un’opera composta da otto uomini e u ligaturi che era il capo dell’opera). Raggiunto l’accordo sul salario da percepire (spesso consisteva in alimenti in natura), la squadra dei mietitori e delle spigolatrici raggiungevano i luoghi di lavoro.
A seconda delle distanze da percorrere a chiurma (la ciurma) si avviava a piedi dai paesi di residenza, che potevano essere anche molto lontani, la sera prima o giorni prima oppure la stessa mattina per raggiungere l’antu (il campo da mietere) prima dell’alba.
All’albeggiare, dunque, tutti i mietitori si trovavano già sul posto pronti ad iniziare il duro lavoro: ogni mietitore tirava fuori dalla cirnera (sporta piccola tessuta al telaio, dove veniva conservato anche il pasto, soprattutto dai picurari (pastori) che nel corso della giornata si spostavano per far pascolare le pecore, u pittali (grembiale, che si metteva davanti al petto per proteggerlo), i bracciali (manicotti di cuoio) e i cannetri (ditali di canna che coprivano le dita: medio, anulare e mignolo sinistro per evitare di ferirsi accidentalmente con la falce mentre falciavano il grano).
Il ligaturi (colui che legava i covoni), infine, indicava il punto da dove cominciare a mietere, nonché il verso opposto all’incurvatura del grano.
Quindi assegnava ad ogni mietitore il posto da occupare sulla riga: «In testa il più forte ed abile, detto capurali di l’antu o cantuneri; alla coda, l’ultimo della riga, il meno valido, che ironicamente si appella capurali di la cuda o capurali di la ristùccia (stoppia) o anche capu-cuda o capu spata. Dietro a lui il ligaturi, che nella destra ha l’ancina, lungo uncino di ferro, e nella sinistra l’ancinedda, forcina di legno, e pendente dalla cintura una quantità di lijamma di ddisa, specie di stroppa di foglie di ampelodesmo che serve a legare i covoni» (S. Salomone Marino, Mietitori e spigolatrici).
Prima di iniziare il lavoro, u ligaturi si faceva il segno della croce ed esclamava: Sia laratu e ringraziatu lu santissimu e divinissimu Sacramentu! Tutti i mietitori a fronte alta e la falce in mano rispondevano: Sempri sia laratu u Santissimu Sacramentu!
Solo dopo i mietitori si curvavano e cominciavano a falciare il grano, esclamando: In nommu di Diu!
Ogni mietitore stringeva l’ammassu (afferrava per il gambo una manata di grano) e dopo averlo falciato, lo annodava in basso attorcigliandogli i vausi (un fascetto dei culmi) e ogni tre manate le deponeva a terra, formando u jèrmitu (un manipolo).
Quindi u ligaturi raccoglieva con l’uncino e la forcina i manipoli di spighe e li maritava (li disponeva in modo che tutti i gambi fossero al centro e le spighe ai due estremi), li legava ca ljammi, dopo averli calcati con il ginocchio, formando i gregni (i covoni), che successivamente venivano trasferiti sulle spalle dei mietitori o a dorso d’asino o mulo vicino all’aria (aia) per essere poi trebbiati.
La dura e faticosa giornata del mietitore, che, sotto il sole cocente, stava con la schiena curva per oltre quattordici ore, aveva delle brevi pause legate ai pasti, che gli permettevano di riposarsi e rifocillarsi.
In queste pause, i mietitori deponevano le falci nell’antu e andavano a sedersi a semicerchio sotto gli alberi ombrosi, come il carrubo.
I pasti giornalieri, accompagnati da barilotti di vino, erano a base di alimenti semplici prodotti anche dalla stessa terra (cipolle, aglio, pomodori, cetrioli, ulive, formaggio, pane, pasta, patate, ecc.).
Questo lavoro, duro e pesante, era accompagnato dal canto, che era un elemento fondamentale per tutte le fatiche dei campi nonché indispensabile per alleviare le stesse fatiche. Infatti, non c’era mietitore che non cantasse canzoni d’amore e non pregasse sia all’inizio della mattina che a chiusura della lunga giornata trascorsa con la schiena ricurva. La sera, poi, finita la cena e recitate le preghiere, si suonava e ballava in compagnia delle donne che, non potendo raggiungere i paesi lontani, rimanevano nelle masserie per tutto il periodo della mietitura.
«Non è una fatica capricciosa [ballare] che la sera si pigliano i falciatori: serve (essi dicono) a sgranchire i muscoli del dorso e insieme a procurar allegria all’animo. Poi ognuno va al suo posto e subito cade in sonno profondo, dal quale non si ridesta che all’alba seguente per ritornare al campo» (S. Salomone Marino, cit.).
Spesso, in mancanza di una casa dove potersi ricoverare per tutta la notte, a chiurma dormiva in aperta campagna sotto un tetto di cielo stellato o sotto un paracqua (grande ombrellone che i contadini e soprattutto i pastori utilizzavano d’inverno per ripararsi dalla pioggia.
La faticosa giornata dei mietitori era accompagnata anche da lazzi e mottetti con i quali si cercava di lenire le fatiche di giornate rese più difficili dal caldo.
A tal proposito scrive Crescimanno: «In quella compagnia di mietitori c’erano tutti i tipi: il ribelle, il filosofo, il burlone, l’astronomo, il bigotto, il miscredente, lo storico. Sicuro! Lo storico anche, il quale, ci entrasse o non ci entrasse, tirava in ballo ad ogni piè sospinto Carlo Magno e Re Borbone, la venuta degli Inglesi in Sicilia, il colera del ’37, la rivoluzione del ‘48» (S. Crescimanno, Nella Messe).
I mietitori, poi, erano seguiti a distanza dalle spigolatrici che spigolavano e mettevano le spighe nelle sacchette che pendevano dai fianchi. Ogni spigolatrice portava nel campo un sacco grande, che posava a terra ben in vista per paura di averlo rubato da qualcuno e un sacchetto, che riempiva di spighe, il cui contenuto successivamente andava a svuotare in quello più grande.
«[Ogni spigolatrice], tornando alla casa colonica o capanna nel pomeriggio, cioè quando si levano i venti alisei, con una mazza che seco ha recato dal borgo batte le spighe e poi le spula servendosi delle mani giunte per ventilabro. Il grano sgusciato affida ogni giorno al proprietario, il quale scrupolosamente glielo riconsegna a spigolatura finita» (S. Salomone Marino, op. cit.).
Il tempo della mietitura era anche il tempo dell’innamoramento favorito dalla frequentazione fra giovani, ma anche dai più anziani che spesso, attraverso ammiccamenti e mezze parole, riuscivano a creare rapporti che si concludevano con il fidanzamento e il matrimonio.
«Da lontano – scrive Crescimanno – arrivava lieve lieve la cantilena delle spigolatrici, che scendevano giù per la vallata cantando, e, Turiddu, cui ribolliva nel cuore un’onda di vita, intese il bisogno di cantare anche lui: “La primavera vinni,/caudu si misi a fari;/iva circannu l’ummira,/e ummira ‘npotti asciari./e di luntanu visti/una galanti rama;/idda faciva l’ummira,/eju m’avvicinai./Quannu di sutta c’era,/ci addumannai ‘n favuri:/Cima dammi na pampina,/m’asciucu li suduri [...] E Nidduzza cantava la stessa canzone di Turiddu; quella parte, però, in cui la “galanti rama” (la donna) offre all’uomo il cuore invece della pampina. Così cantava: “Pampina nun ti dugnu,/ti dugnu lu me cori» (S. Crescimanno, op.cit.)
Alla fine della calda e faticosa giornata, i covoni, sparsi per la campagna, venivano caricati su asini e muli per essere trasportati vicino all’aria (aia) e ammassati a formare a timugna (la bica) pronti per essere trebbiati.
di Paolo Magnano
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