Per “leggere” I segreti del giovedì sera (Einaudi 2020), il nuovo romanzo di Elvira Seminara, bisogna concentrarsi sulla situazione romanzesca nella sua nuda caratterizzazione sociologica e psicologica. I personaggi, di questo romanzo corale e generazionale, sono degli intellettuali borghesi, “liberal” e benestanti che risiedono a Catania. Stanno tutti per oltrepassare la soglia dei sessant’anni. Cioè stanno per doppiare per la seconda volta la “linea d’ombra”. Il periodo della vita, dice Conrad, in cui è più facile che sopraggiungano momenti di “noia, di stanchezza, d’insoddisfazione. Momenti di avventatezza.” Arrivati al secondo giro di una giostra trentennale essi reiterano, da “tardo adulti”, i travagli e le incertezze del primo passaggio, ma con meno energico furore e fiduciose aspettative.
Succede che tutto ciò che essi hanno costruito nei decenni precedenti: carriere, amori, amicizie, famiglie, modelli di comportamento e visioni del mondo, si sta sgretolando di fronte al dato oggettivo del declino biologico e al conseguente incerto e decadente futuro. Faticano soprattutto a stare al passo con la mutazione tecnologica e antropologica degli ultimi decenni e si sentono cerniera tra vecchia e nuova realtà.
Invece dovrebbero essere attrezzati ad affrontare la crisi perché, facendo professioni intellettuali, a loro è affidato il compito di gestire gli strumenti per comprenderla e padroneggiarla. Infatti, leggono, si informano, citano autori, fanno disparate esperienze, dibattono tematiche di moda, ma tutto questo lavorio esistenziale non riesce a farsi sistema, non crea risposte coerenti, rimane un rumore di fondo centrifugato in dialoghi smaglianti. Alle vetuste filosofie strutturate, alle ardenti ideologie abbandonate e alle rassicuranti religioni, evocate di tanto in tanto, si sostituisce una rapsodia debole e incoerente di nuovi saperi, di studi, di ricerche, di congetture, di suggestioni globali ed esotiche. Una chiacchiera che non lascia traccia, che non va oltre un grazioso nichilismo.
I segreti del giovedì sera è un romanzo d’ambiente e di costume, ma anche di analisi, che fa quasi a meno dell’intreccio, in cui, attraverso il resoconto degli incontri periodici di un gruppo di amici, viene realizzata quella che Kundera definisce “un’esplorazione di ciò che è la vita umana.” Forse l’unico compito che si deve dare chi ambisce a definirsi scrittore/scrittrice contemporaneo/a.
Elvira Seminara ha il merito, infatti, di descrivere “il grande freddo”, che pervade un’intera generazione. In certe pagine, la sofferenza, che è tenuta sotto traccia e visibile solo in filigrana, esplode come un’eruzione vulcanica. Ne sono esempi gli episodi della morte della madre di Pietro, del suicidio di Velia o l’inserto intimo di un transito doloroso nella vita della narratrice. Ma sono solo frangenti quasi epifanici, subito messi a tacere e sotterrati sotto la cenere, grazie al contrappunto umoristico o la digressione ironica.
L’amicizia è un tema centrale della vicenda narrata, l’intesa tra affini non diventa quasi mai vera confidenza condivisa. I protagonisti rimangono quasi sempre un passo indietro dalla linea dell’emozione e della commozione; spesso cedono all’intellettualismo per paura del sentimento. Ne fanno le spese il patimento psicosomatico di Sophia, la difficoltà di relazione con il giovane amante di Miriam, l’improvvisa vedovanza di Olivia, l’innamoramento patetico e destrutturante di Pietro. Si anela a stare e a vivere in gruppo, per un giorno la settimana, ma ci si salva da soli e solo se si può.
Il personaggio che più di ogni altro incarna lo spirito dei tempi (o vi si trova più a suo agio) è Cesare, il filosofo, che non a caso cita il micidiale Cioran. Alla fine, dopo essersi liberato delle paturnie di Sophia, afferma in pieno spirito nietzschiano: “Crolla il mondo … e mi sento leggero come se lo avessi retto sinora sulle spalle”. E non ascolta l’unica battuta di esplicito coinvolgimento emotivo pronunciata in tutto il romanzo dalla protagonista e voce narrante: “Tu sei un buon posto, Cesare, per me”.
Il romanzo possiede, inoltre, il notevole pregio di mostrare finalmente una Catania e una Sicilia immerse nei circuiti e nelle problematiche della modernità, senza gli stereotipi beceri, ma stratificati, di una mummificante tradizione letteraria.
Elvira/Elvis, la voce narrante, si situa in una posizione interna al romanzo, fa parte del gruppo, ne condivide l’amicizia e le esperienze, ma è riluttante sul proprio retroterra esistenziale; sta con un piede dentro la vicenda per viverla e un piede fuori per osservarla e raccontarla. L’auctor in fabula inscena spostamenti di prospettiva e inaspettate rivelazioni, giochi di specchi, finta autofiction, propagazione in parti diverse di un’unica realtà psichica.
Lo sguardo è arguto e leggero, particolarmente attento a individuare dettagli rivelatori che aprono prospettive conoscitive. L’orientamento narrativo è ironico e a tratti beffardo, ma privo di malizia. La scrittrice passa benevola e compassionevole sui tratti umani (e troppo umani) dei personaggi, col proposito di spalmare una pennellata di miele sulle ferite esistenziali. Il tutto è incartato in uno stile brillante e spumeggiante che evidenzia grande versatilità linguistica ed un’intelligenza sintattica fortemente dinamica.
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