Si chiama “Etna 1669 – Storie di lava” la mostra allestita in occasione dei 350 anni dalla terribile eruzione che colpì Catania e diversi paesi etnei, ospitata presso il Museo dei Saperi e delle Mirabilia siciliane (Palazzo centrale dell’Università di Catania) e visitabile gratuitamente dal 28 giugno al 30 ottobre 2021.
Curata dalla Soprintendenza ai Beni culturali di Catania, frutto della collaborazione con il Sistema museale dell’Ateneo catanese e della partecipazione dell’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, l’esposizione fa luce sull’evento di cui ancora oggi è vivo il ricordo nell’immaginario collettivo catanese.
Articolato in diverse sezioni tematiche, il museo accoglie un vasto patrimonio documentale costituito da libri e collezioni pubbliche e private, con reperti che afferiscono alla paleontologia e mineralogia, alla ceramica figurata e alla petrografia. Non mancano, inoltre, opere pittoriche e antiche planimetrie che mostrano gli insediamenti urbani antecedenti all’eruzione, nonché una sezione scientifica dedicata alle moderne attività di ricerca condotte nelle aree etnee.
A “Muntagna” ‒ come viene soprannominato l’Etna ‒ prima ancora che la meta di visitatori provenienti da ogni parte del mondo, è il simbolo che lega a sé tutti gli abitanti del luogo, rappresentando una preziosa fonte di vita, ma anche, com’è accaduto 350 anni fa, di distruzione.
«Per la città e l’Etna, l’eruzione del 1669 fu l’evento più importante dal punto di vista vulcanologico, ma anche storico: quell’anno viene fino ad oggi ricordato come la grande “ruina”» ha raccontato Stefano Branca, direttore dell’Ingv di Catania.
Come testimoniano le fonti, in quell’occasione furono distrutti dodici casali, interi paesi e vasti terreni fertili, con ripercussioni economiche e sanitarie su gran parte della Sicilia orientale. A essere colpiti furono prima Belpasso, Camporotondo e Misterbianco e in seguito diverse zone del capoluogo, che perse il suo ruolo di città egemone e vide circa ventisettemila abitanti abbandonare le proprie case.
La mostra, accogliendo anche alcuni oggetti salvati dalla popolazione in fuga, rappresenta, dunque, non solo un percorso artistico-vulcanologico, ma anche una riscoperta dell’identità e della memoria dei luoghi.
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