Il monologo “Ulisse racconta Ulisse” di Beatrice Monroy e Sergio Vespertino, messo in scena al teatro Garibaldi di Avola – direttore artistico, Tatiana Alescio, – è una rivisitazione in chiave ironica del viaggio di ritorno di Odisseo che, lungi dall’essere ritenuto valoroso, viene additato come vile, pessimo padre e anche sposo. A dominare la scena, l’istrionico attore palermitano, Sergio Vespertino, che, accompagnato dalle musiche originali di Pierpaolo Petta, ha riproposto il flashback dell’Odissea con un linguaggio a slalom tra l’italiano standard e il dialetto siciliano, in una rinnovata formula in cui la farsa si somma all’epica. Siamo nella terra dei feaci, governata dal re Alcinoo: Ulisse narra le peripezie che ha dovuto affrontare: dal momento della partenza da Troia, utilizzando qualche scappatoia.
Quando Alcinoo chiede a Ulisse «Ma tu cu’ si’?» lui risponde «Il mio nome è Odio, di me si dice che sia un eroe, il re degli inganni, e invece non è proprio così». Ma Sergio Vespertino, prima di entrare nel vivo, ha voluto spiegare il pretesto della guerra fra troiani ed achei: «Elena non fu rapita, cu Paride si nni fujìu, ci piaceva assai, e – diciamolo pure – del marito Menelao si nni futtìu». Comunque, trascorsi 10 anni dalla fine del conflitto, Ulisse è l’unico a non aver fatto ritorno a Itaca: è trattenuto dalla ninfa Calipso, nell’isola di Ogigia, lì dove il mare luccica e tira forte il vento, povero disgraziato, cu na fimmina accussì bedda, avoglia ad andarci dentro. Ulisse, però, ogni volta che faceva l’amore con Calipso, si allontanava «mischino, chianceva pinzannu a Penelope e a so’ figghiu ca nun era cchiù nella naca. È inutile, noi esseri umani dopo picca tempo ci annoiamo, lo scrisse pure Califano, nella sua canzone ”Noia”, un poeta molto delicato a noi contemporanei».
Sergio Vespertino ha ricordato la sosta di Ulisse e dei suoi compagni nella terra dei Ciclopi, i giganti «cu ‘n-solu occhiu ca vivunu dintra i vulcani: Polifemo, perciò è catanisi, a Ulisse ci dice Bastarduni, cala i manu! E così Polifemo, ormai annurbatu, - Ulisse gli aveva infilato nell’occhio un legno infuocato – fa nesciri capre e pecore, ma Odisseo che è troppo astuto si ci appizza ‘i sutta, sicuro ca Omero ni pigghiò ppô culu, ottanta chili di cristianu, ma cchi ci accucchia!».
«E poi arriva sull’isola della maga Circe che, bontà sua, si innamora di Ulisse, trasformando i suoi compagni in porci, cose dei pazzi, e chi li riconosce? A pirchì ‘a storia del cavallo di Troia? Trentacinque greci – lo dicono autorevoli fonte storiche – dentro la pancia di un cavallo di legno, quannu nisceru avìanu le gambe anchilosate, oh, oh, aspetta, in piedi nun tinemu, magari ca semu soldati. Ma Ulisse – signori miei – non è il valoroso combattente da tutti osannato, quando Telemaco lo rivede ad Itaca, dice che suo padre non c’è mai stato. Il cane, Argo, riconosce il suo padrone, e lui, proprio per questo, si allontana, ma che gran c… Sotto le spoglie di mendico, anche la vecchia nutrice lo ha identificato, ma lui – tantu ppi canciari - si è dileguato».
Lui – grida Telemaco – non è più il re, non appartiene a questa famiglia, il suo nome è Nessuno, una quisquilia.
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