In un libro-intervista con Simonetta Fiori («Il silenzio degli intellettuali», Laterza 2009)
l’apocalittico Asor Rosa additava nel “dissolvimento del ceto intellettuale, attore non innocente del declino complessivo”, le ragioni della “catastrofe” italiana.
Quello degli intellettuali e del loro rapporto col potere e con la società è, a vero dire, problema antico e nuovo insieme, sempre rinascente.
Per restare in Italia, già nel 1959, Elemire Zolla scrisse un libro il cui titolo è ancora più duro di quello asorrosiano, «Eclissi dell'intellettuale». Per Asor Rosa, infatti, gli intellettuali ci sono, ma tacciono e tacendo acconsentono, sovente per tornaconto. Per Zolla gli intellettuali, in quegli anni del boom economico, dell’Italia che si avviava a diventare potenza industriale, erano scomparsi. Dov’erano finiti, da chi oscurati? In realtà non erano affatto scomparsi. Forse, dopo il quasi generale conformismo nel ventennio fascista, si erano trasformati nel passaggio della società italiana verso una dimensione capitalistica, mentre altri, vicini al Pci, si erano fatti propagandisti dell’ideologia comunista. Insomma, gli uni e gli altri si rivelavano conformisticamente “organici” a qualche partito della giovane Repubblica democratica e parlamentare.
Affrontare la “quistione” (l’uso della parola nella variante gramsciana s’impone, quando si discute di intellettuali, tema caldissimo per il Grande Sardo) su «quale sia il ruolo degli intellettuali è un problema di cui ciclicamente si discute, più o meno polemicamente. Condizione imprescindibile sono l’autonomia e l’indipendenza di giudizio: un intellettuale asservito a qualche potere o interesse non sarebbe neppure tale. Ma come usare questa libertà? Per denunciare le ingiustizie e i conformismi del proprio tempo, si risponde di solito. Secondo Edward Said, l’intellettuale è un outsider, un contestatore sempre pronto alla sfida con la società» (Mauro Bonazzi, Sette-Cds, venerdì 15 ottobre 2021).
[Outsider significa “fuori luogo”, “straniero”, e forse Said allude alla condizione “archetipica” della “estraneità” e della “stranezza” del filosofo instaurata da Socrate in Atene. «I termini átopos, atopía, atopótatos […] ritornano spesso nei dialoghi di Platone – ha scritto Pierre Hadot in Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi 2005, p. 101 – per descrivere il carattere di Socrate, per esempio nel Teeteto, 149a: “Si dice che sono atopótatos e che non creo che aporía”. La parola átopos significa etimologicamente “fuori di posto”, “non a luogo”, dunque strano, stravagante, assurdo, inclassificabile, sviante»].
Bonazzi ritiene però che, oggi, la funzione dell’intellettuale non sia solo quella della socratica atopía, ma anche quella di «educare alla complessità: è questa la sfida del nostro tempo. In fondo, è una forma di rispetto per le persone a cui ci si rivolge. Non masse che attendono di essere guidate, ma persone capaci di intendere e ragionare».
Ma le “persone capaci di intendere e ragionare” nella società, italiana e mondiale, di oggi, in tempi di “dittatura” digitale, sono una sparuta minoranza. Come sempre, in fondo. Già Platone infatti diceva che «la massa non sarà mai filosofa» (Repubblica, 494a) e che «la massa non si accorge di niente, ma qualunque cosa quei tali potenti annunciano, questo stesso la massa inneggia» (Protagora, 317a).
Diciamolo allora con franchezza: tra intellettuali e popolo, nella sua versione peggiore, chiamata volgo, non è mai corso buon sangue.
A cominciare proprio da Socrate, che ci rimise la vita per la sua cocciuta volontà di far uscire gli ateniesi dalla caverna delle idee ricevute, dei pregiudizi e dei luoghi comuni in cui giacevano incatenati.
Di tale divario incolmabile, la sintesi perfetta si può forse trovare nel celebre verso di Orazio: “Odio il volgo profano e lo tengo a distanza”. A fare da discrimine era proprio la cultura dei primi, alla quale la massa degli altri era del tutto refrattaria (ma forse più discriminante era l’ancora più radicale atteggiamento di Socrate: sapere di non sapere e coltivare la téchne del dubbio). Duemila anni dopo, con stile diverso dalle “emunctae nares” di Orazio, anche il democristiano Ettore Bernabei, al vertice della RAI dal 1962 al 1974, ebbe parole poco lusinghiere verso gli italiani, quando dichiarò che «i telespettatori sono venti milioni di teste di cazzo. A noi il compito di educarli» (e comunque, ammesso che quella RAI li avesse educati, a diseducarli avrebbero poi provveduto le televisioni di Silvio Berlusconi).
Che gli intellettuali (quelli “socratici”, non i conformisti e i funzionari, non gli “esperti” che si mettono al servizio dei decisori e che sono l’esatta antitesi del pensiero critico) già da qualche tempo non se la passino bene, siano sempre più autoreferenziali e, nell’opinione pubblica, contino molto meno degli “influencer” Ferragnez, a meno di strizzare l’occhio a populisti, qualunquisti, complottisti, è comunque un dato di fatto. Della crisi inedita che, nell’era digitale, l’autorità culturale sta sperimentando e che ha inevitabilmente coinvolto le figure sociali che, per possesso di titoli e produzione di libri di rigore scientifico (i soli blasoni che garantivano autorevolezza e autorità), della cultura erano i riconosciuti titolari, cioè gli intellettuali, offre ora un pregevole e dettagliato quadro Franco Brevini, professore di Letteratura italiana all’Università di Bergamo, nel suo ultimo libro, «Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? La crisi dell’autorità culturale», Raffaello Cortina editore 2021, pp. 291, € 22,00. Brevini spiega le molteplici ragioni di «uno dei conflitti che attraversano il mondo contemporaneo e che potremmo formulare in modi diversi: fra i molti e i migliori, fra quantità e qualità, fra popolo ed élite. Sorretto e nutrito dall’iperugualitarismo degli ultimissimi decenni, ha procurato la progressiva delegittimazione di ogni autorità culturale».
Secondo Brevini, «le prime avvisaglie risalgono alla fine del secolo scorso», mentre «il periodo compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta ci appare come una fase di transizione», in cui, tuttavia, avvengono fenomeni dirompenti verso una tradizione conservatrice, come il Sessantotto col suo «radicalismo apocalittico: la natura contro la civiltà, il desiderio contro la realtà, il sentimento contro la ragione» e la conseguente “evaporazione del padre” (J. Lacan), la forma primaria di autorità.
Brevini scrive da scienziato, che ha compulsato saggi di sociologia e psicologia sociale, di politologia e filosofia, ma le pagine sulla scuola (nel capitolo quinto, intitolato “La disfatta della scuola”) trasudano risentimento e passione. Senza fare nomi né indicare i responsabili delle decisioni politiche, Brevini elenca i diversi fattori che hanno contribuito, con diverse intenzioni, ma sempre con gli stessi effetti nefasti, al tracollo della scuola: da certi cascami di un sessantottismo finto-egalitario al sempre più invasivo pedagogismo (il “portfolio delle competenze”, i “lea”, cioè legami emotivi e affettivi), per cui «in tutto questo fervore compassionevole e assistenzialistico l’ultima preoccupazione è l’accertamento delle effettive conoscenze acquisite»; dal “declino dell’insegnante” rispetto al ruolo «familisticamente protettivo dei genitori», che verso i figli «si muovono in una logica della facilitazione a tutti i costi», alla «riconversione utilitaristica del sapere e la subordinazione a obiettivi di tipo pragmatico», dettati dalle esigenze dell’imprenditoria industriale, fino alla dimenticanza della «vecchia ‘paideia’, che reputava l’acquisizione del sapere inscindibile dalla costruzione della personalità», per cui «la scuola rischia di produrre individui addestrati, ma destrutturati, preparati a obbedire invece che a decidere».
La vera rivoluzione copernicana, ma in senso del tutto negativo, Brevini la attribuisce all’avvento di quella che il filosofo francese Paul Virilio chiamò nel 1977 “l’età dromologica”, cioè l’età della velocità, che ha avuto il suo pieno inveramento nel connubio tra rivoluzione tecnologica e rivoluzione digitale.
La “ribellione delle masse”, di cui scrisse il filosofo spagnolo Ortega y Gasset nel 1930, non fu tanto quella che, in nome di un collettivistico processo di liberazione e di promozione sociale, Giuseppe Pellizza da Volpedo aveva icasticamente prefigurato e rappresentato su una tela giustamente famosa, “Il Quarto Stato” (1898-1901), quanto quella realizzata dall’avvento dei new media, di Internet e del Web, nel segno però, del tutto opposto, di un individualismo senza freni, del narcisismo del self e dei selfie, dell’ostentazione del privato nei social media. Infatti, osserva Brevini, «il computer ci ha educati alla facilità e alla velocità, bandendo apprendistati e liquidando le figure dei maestri che ne erano le guide», e «non ha permesso solo di fare, ma anche di dire, senza alcun filtro tecnico o culturale», cosicché «i “numerosi” non erano più solo passivi consumatori, ma diventavano essi stessi promotori di cultura», perché «il social networking ha reso possibile un vero e proprio suffragio universale dell’esprimersi, salutato dal popolo del Web come l’abolizione di un privilegio, la detronizzazione di una casta bersaglio di un odio inveterato». Insomma, «la disintermediazione ha sgominato ogni autorità culturale».
Tuttavia, contro i «rischi del fai da te epistemico» e, ancor più, contro i «rischi [paventati dalle pessimistiche riflessioni di Heidegger e di Severino] di una tecnologia, tanto sofisticata da rivoltarsi contro gli esseri umani», Brevini addita una possibile salvezza nel recupero della weberiana “etica della responsabilità” attenta alle conseguenze delle azioni. Perché, «senza l’etica, la città intesa come luogo elettivo della società civile è “périssable” [destinata a morire], secondo la definizione di Paul Ricoeur».
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