Terminata la raccolta dei covoni attorno all’aia e liberati, dunque, i campi dalle messi, iniziava il secondo importante tempo tanto atteso: la trebbiatura e la conseguente raccolta del grano.
Si cominciava a pisari (a trebbiare) dopo le dieci del mattino perché nelle ore precedenti le mannelle, che erano state tolte da timugna, erano state sparse nell’aria (aia) ad asciugare do risinu (dalla brina) della notte. Mentre si aspettava, venivano preparati i cucchetti (le mule appaiate) che, a seconda della grandezza dell’aiata, potevano essere raddoppiati.
Ogni coppia di mule era guidata da un caccianti (guidatore) che, stando al centro dell’aia, reggeva i retini (le redini) e u capu (la sferza fatta di fune).
Tutti gli altri turnanti (i lavoratori che stazionavano attorno all’aia) co trirenti (il forcone) avevano il compito di riaccostare di continuo le spighe che le mule, correndo e pestando, facevano saltare fuori dall’aia.
Il compito di caccianti toccava ai più giovani, mentre i più anziani avevano quello di sistemare continuamente l’aia.
Sia i caccianti che i turnanti, per ripararsi dal sole cocente delle ore più calde, portavano in testa un cappello di paglia a falde larghe.
Ogni coppia di mule si faceva lavorare per un’ora abbondante e poi si faceva riposare; durante questa pausa, tutti i lavoratori si premuravano a vutari l’aria (a rivoltare l’aia). Questa operazione avveniva ad ogni caccia. Fra l’altro, alle mule, che uscivano fuori dall’aia dopo a pisata, venivano tirate le orecchie perché era convinzione che potessero avere dei capogiri, dovuti alla continua corsa circolare sostenuta nel pisari (trebbiare). I caccianti (che chiamavano le mule per nome e con la frusta le facevano trottare) a voce alta e con una cantilena monotona gridavano mottetti e canzoni.
A tal proposito, scrive Crescimanno: “Turiddu Tummineddu che teneva nella sinistra le redini della prima mula e nella destra la frusta, le spingeva a laviorare, gridando a voce alta e monotona e scandendo le sillabe: Afòoo… cani canigghia, afòooo/ ju mi manciu lu spicchiu e tu la pagghia./ Lu spassu di li vecchi su’ li ficu,/ lu spassu di la jatta è lu stufatu,/ lu spassu di lu ventu è la munnizza,/ lu spassu di lu focu è la linazza;/ tannu la donna dormi cu ducizza/ quannu cu l’omu si strinci e s’abbrazza. Dopo la pausa dovuta al meritato riposo delle mule, Turiddu seguitava a cantare: Batti cuntenta e nun t’abbannunari;/ batti la testa e sona la cianciana./ E nun mi taliari di mal’occghiu/ comu la donna cu maritu vecchiu" (S. Crescimanno, op. cit.).
Nelle ore pomeridiane, poi, dopo che l’ultima caccia era stata completata, e i mannelli erano stati ridotti in paglia ed il frumento riluceva al sole, i lavoratori si preparavano a spagghiari (eliminare la paglia e lasciare il grano dentro l’aria). Infatti, appena si vutava a oria (si alzava la brezza, venticello periodico e costante detto anche alisei) si cominciavano a lanciare in aria la paglia con i chicchi di grano, che, essendo più pesanti, ricadevano dentro la stessa aia ammucchiandosi, mentre la paglia e le glume dal vento venivano trasportati e depositati fuori.
“I tridenti mandavano in aria il frumento misto a paglia ed il vento portava in uno dei lati la paglia affastellandola nel così detto marbuni; il frumento cadeva nel centro dell’aia, rilucendo al sole come falde d’ora” (S. Crescimanno, op. cit.)
Finito di spagghiari, si cominciava a spalari l’aria: con la pala si insaccava il frumento e si metteva ‘nto crivu (arnese rotondo che serviva a separare il frumento da altre materie) ranni di l’aria ppi essiri cirnutu (separato dalla terra) e così, togliere tutte le pietre e la pula che si trovavano in mezzo al grano. Dopo essere stato pulito, anche di quest’ultimi residui, finalmente si poteva mettere nei sacchi, che venivano ammassati attorno all’aia. Questo lavoro veniva continuato fino a quando l’aia non era del tutto sgombra di frumento e pronta l’indomani mattina per una nuova pisata. Alla fine della dura giornata di lavoro, tutti i contadini rimanevano attorno all’aia per riposarsi, in attesa di poter finalmente mangiare la minestra, che veniva distribuita nei piatti di creta, e bere un po' di vino “ristoratore” e alleviatore delle fatiche.
“Da questo momento – scrive Salomone Marino – cambia la scena. Nell’aja si inizia un cicaleccio animatissimo, sorgono i motti pungenti, le frasi equivoche e a doppio senso, gli scherzi, le barzellette, i giochi, le sfide. I più maturi duellano con la lingua e gareggiano di spirito; i più vigorosi fanno prove di forza ed esercizi di lotta; i più giovani, capitomboli o giochi infantili, che sull’aia non si disdegnano da chi non è più fanciullo. […] Se l’aia è prossima all’abitato, sogliono seralmente le massaie, insieme alle amiche del vicinato, intervenirvi; e piglian parte ai passatempi e giochi e canti, e non di rado ballano i noti balli paesani. Così, lietamente, si spasssano una o due ore, finchè grado a grado la brigatella si dirada, essendochè le donne, in comitiva, si sono restituite a casa” (S. Salomone Marino, op. cit.)
Però, non tutti i lavoratori, a conclusione dei balli e scherzi della serata, andavano a riposare le stanche membra supra o iazzu (giaciglio di pietre, coperto con foglie sulle quali veniva stesa una visazza (coperta di lana tessuta al telaio) o i vertuli, ma tanti dormivano sulla nuda terra accanto all’aia, mentre altri vigilavano a turno sui sacchi di frumento accatastati in attesa di essere trasferiti a dorso di muli in paese.
La paura, infatti, era quella che i ladri, nel buio della notte, potessero rubare, una volta spagghiatu, il grano frutto di fatica e rischiare di perdere il tanto atteso raccolto.
Solo quando cominciava ad albeggiare, si poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo, perché si cominciava ad allestire una rètina di muli, pronti a trasferire i sacchi di grano nelle abitazioni e svuotarli ‘nto cannizzu (alto contenitore di canne), dove si conservava in attesa di essere macinato nel corso dell’anno oppure venduto, se il raccolto era stato abbondante, permettendo, così, ai proprietari di venderne la parte eccedente.
di Paolo Magnano
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