“Nati in bianco e nero”, lo spettacolo con Cosimo Coltraro ed Emanuele Puglia, per la regia di Angel Perrichet, riproponendo in chiave moderna una giostra di personaggi emblematici del teatro comico, ha sottolineato velatamente la crisi che investe il settore teatrale in genere.
Al “Garibaldi” di Avola, la cui direttrice artistica è Tatiana Alescio, i due comici hanno indossato i panni di celebri coppie tra cui Franco e Ciccio, Ric e Gian, Cochi e Renato, Chiari e Rascel, Stanlio e Ollio. In ossequio, dunque, al metateatro, il palco è stato trasformato nel laboratorio-studio di due ipotetici comici non più giovani e che, vivendo in un quartiere popolare di una grande città, sono rosi da un dubbio amletico: contattare o meno un direttore artistico per l’assegnazione di una parte. Presa finalmente la decisione, cominciano a telefonare: Sono Emanuele Salento. Cosa ha capito? Non Enrico Maria Salerno; sono Cosimo Cappotto. Non, Carlo D’apporto. Una telefonata che dà il là ad una commedia degli equivoci, perché i punti di vista, ancora più della verità, non sono mai univoci e ai dissidi tra i due, perché quella volta Salento avrebbe voluto il suo nome a lettere cubitali sul cartellone.
Ecco irrompere e irradiarsi la musica del maestro Anselmo Petrosino il quale con la sua fisarmonica digitale accompagna Cosimo Cultraro nel suo assolo “Gastone” che, pur rievocando Paperone, costituisce il paradigma del personaggio affettato, svenevole e un po’ stupido di Ettore Petrolini, ripreso da Gigi Proietti: Gastone sei del cinema il padrone, ho le donne a profusione. Lo spettacolo - organizzato in collaborazione col comitato di gestione del teatro e patrocinato dall’amministrazione Cannata - dopo un passo lento, ha decretato risate sino allo sfinimento. Un’atmosfera circense lo ha impregnato a tratti, Cosimo Cappotto è in terra, per sollevarsi, pensate un po’ bisogna girare la manovella. La scena cambia rapidamente, et voilà, altri abiti, altro timbro vocale, suvvia, basta l’abilità, non ci vuole niente. Salento è un regista, deve valutare la particina di Cappotto “’U purtau ‘u pani papà?”, ma la tonalità è monocorde, oh, Dio, una cosa così mai si è vista. Comincia così la sfilza di suggerimenti, ma Cappotto sembra duro d’orecchi o forse di comprendonio, accidenti! Lo spettacolo diventa esilarante, i due comici fanno centro, professionisti d’eccezione, al bando i dilettanti. E siccome la vita non è nient’altro che teatro, il finale ha il sapore della denuncia, i due recitano My Prayer, la situazione soprattutto per gli artisti si mette male, Gesù non ci abbandonare. Al teatro paghiamo un conto salato, la crisi viviamo sulla nostra pelle, per far ridere il pubblico a crepapelle. Gesù, dunque, liberaci dall’oblio e dai teatri vuoti, e, dunque, benvenuti in teatro, dove tutto è finto, ma niente è falso perché è e c’è sempre stato. Il teatro è quell’immediato svenire, è il paese del vero, vita lunga, perciò, al teatro, l’invenzione dell’uomo non può svanire.
©riproduzione riservata