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La scrittura come “lettura tra le ombre della storia” nel romanzo di Nadia Terranova

2022-03-11 11:00

Orazio Caruso

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La scrittura come “lettura tra le ombre della storia” nel romanzo di Nadia Terranova

La storia di due giovani a cavallo fra drammi famigliari e il terremoto di Messina del 1908

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Alle 5:20 del 28 dicembre 1908 un sisma di magnitudo 7.1 colpì lo Stretto di Messina, devastando le città e i villaggi delle due coste e decimandone la popolazione. Un terremoto di dimensioni leggendarie che ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva non solo nazionale, incrinando fortemente l’ottimismo con cui era iniziato il Novecento.

Nadia Terranova, scrittrice messinese che da molti anni vive a Roma, col suo nuovo romanzo “Trema la notte” (Einaudi, 2022) ricostruisce quel lontano evento scegliendo efficacemente l’angolazione laterale e parallela di due sopravvissuti: Nicola, un bambino di undici anni di Reggio Calabria e Barbara, una giovane donna di Messina. Due persone apparentemente ordinarie che, tuttavia, prima ancora di essere, come tutti, in balìa del cataclisma naturale, sono vittime delle convenzioni sociali e delle famiglie di appartenenza.

Incontriamo nelle prime pagine Barbara mentre, seduta in treno, dal suo paesino di Scaletta Zanclea è diretta a Messina, per andare a trovare (come Cappuccetto Rosso), la nonna. Insieme a lei assisterà, in serata, ad una rappresentazione dell’Aida al Teatro Vittorio Emanuele. La giovane, orfana di madre, non vorrebbe sottostare al destino che il padre, ricco possidente, ha deciso per lei: quello di diventare la brava moglie borghese di un signore rispettabile. Lei vorrebbe invece continuare a studiare e a leggere, emanciparsi dal dominio patriarcale, poter scegliere da sola chi amare.

Nicola vive in una famiglia, che oggi chiameremmo disfunzionale, in cui ad un padre assente e indifferente si affianca una madre trascurata e sadica. Maria, bigotta e veneta, concentra sul figlio la sua “scrupolosa protezione”, il suo zelo concentrazionario, fino a obbligarlo a dormire in una cantina buia, legato da “corde sante” ad un catafalco sepolcrale, per impedire che il demonio possa venire a prenderlo di notte. Una madre “troppo amorosa”, castrante e colpevolizzante (quasi come Calipso che, per amore, “nasconde” nella sua isola, il nostalgico Ulisse), che il bambino non può permettersi di far soffrire con pensieri di fuga e di libertà.

Il terremoto rimescola le carte, sconvolge i destini segnati, apre ventagli di nuove occasioni, ma sprigiona anche forze oscure, barbariche. I due protagonisti si illudono, benché attanagliati dal senso di colpa, che “la ruota della fortuna” cominci a girare dalla loro parte, che “il male si volga … in bene”. “Ero libera in un modo spaventoso” dice Barbara e “il giorno nasceva a dispetto di tutto”.

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Al contrario, un altro evento doloroso li coinvolge entrambi nel momento fatale in cui le loro vite si incontrano e si scalfiscono. È la catabasi, lo sprofondo agli inferi.

La seconda parte del romanzo annota le diverse stazioni della lenta risalita di Nicola e Barbara, quasi una vera anabasi iniziatica scandita dalle carte dei tarocchi chiosate in esergo di ogni capitolo. È un percorso di salvezza che passa attraverso la ricostruzione di un nuovo tessuto familiare e sociale, non più basato sulle relazioni cosiddette naturali, ma su libere scelte di elezione e di adozione. I due protagonisti incontreranno “aiutanti” che faranno loro scoprire i veri valori del benevolo amore e della solidarietà (della sorellanza) femminile.

Nadia Terranova orchestra con sagacia narratologica il suo intreccio mediante una doppia narrazione, alternando i capitoli e le focalizzazioni ora sul personaggio di Barbara, che racconta in prima persona, ora sul personaggio di Nicola, raccontato da una voce esterna che solo alla fine rivelerà la propria identità. Abilmente utilizza la struttura del romanzo di formazione, non disdegnando, a tratti, andamenti e costrutti fiabeschi, anche gotici, in particolare negli episodi dedicati ai maltrattamenti subiti dal protagonista bambino.

Lo stile è piano, esente da tentazioni mimetiche, ma vivido di immagini originali e memorabili, in particolare nella descrizione degli effetti devastanti del terremoto. “Un gigante si era seduto sulla sua casa, e quella non aveva retto il peso". Non si intravedono, tuttavia, ridondanti manierismi espressionistici che provino a riprodurre la stratificazione linguistica del primo Novecento, magari con qualche facile deformazione proveniente dal parlato dialettale, ormai tanto di moda. Semmai avviene il contrario. Non volendo essere questo un romanzo prettamente storico, si procede per una strada inversa, che proietta nella luce del passato le problematiche costanti della condizione umana, rinvigorendo la materia storica.

In sostanza, in un romanzo che pone al centro il terremoto di Messina del 1908, lo scopo non è parlarne solo nel senso denotativo (anche se sull’argomento il testo appare, com’è giusto, molto preciso e documentato). L’evento sismico assume, nel contesto del romanzo, una forte connotazione simbolica.

Senza mai enfatizzare i toni, che permangono volutamente medi, l’autrice mette in scena l’irrompere del perturbante nella vita quotidiana, non solo nella forma imprevedibile e sconvolgente della scossa tellurica che, in un attimo, converte la casa da riparo accogliente e sicuro in uno spazio ignoto irto di insidie, ma anche e soprattutto nella inquietante figura della madre. La scoperta da parte del bambino che la persona, che dovrebbe rassicurarlo ed aiutarlo a crescere, è invece la più pericolosa per lui intossica la sua mente di dubbi e angosce. Per non parlare dell’equivoca figura del marinaio soccorritore, da un lato premiato come eroe che aiuta i terremotati, dall’altro responsabile dell’atto più abietto.

Ma il romanzo non si ferma alla contemplazione del male e della sconfitta e non ha paura di esprimere un messaggio di speranza. I due protagonisti non si limitano ad apprendere che le minacce, le ostilità, non stanno solo nel bosco, nel mondo esterno, e che il lupo si può travestire con la pelle di una madre o di un benefattore. Attraverso innumerevoli e avventurose peripezie, comprendono, nel contempo, che esiste pure l’aiuto disinteressato degli sconosciuti, degli stranieri (Jutta, i marinai russi o inglesi). Nadia Terranova, se da un lato ribalta i luoghi comuni che vedono nell’appartenenza familiare solo il buono, dall’altro ci invita ad essere ottimisti verso il prossimo ad aprirci alla speranza, confermando che l’istinto di vita e di sopravvivenza è più forte della pulsione di morte.

I due protagonisti, che hanno attraversato l’inferno, non ne sono diventati parte (come direbbe Italo Calvino), non si sono confusi con esso; hanno conservato la loro purezza istintiva. L’offesa li ha scalfiti, forse umiliati, ma non li ha corrotti. E la scrittura è, quindi, una “lettura tra le ombre della storia”. Solo grazie ad essa il cerchio si chiude:“la notte ha smesso di tremare” e il terremoto ha smesso di fare paura.

 

 

 

©riproduzione riservata 

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Siracusa. Numero di iscrizione 01/10 del 4 gennaio 2010

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